Delle questioni relative ad alcune fattispecie di amministrazione di patrimoni.
(I parte : minori e incapaci)
Note a margini di Studi sul tema di Claudio Trinchillo, già Notaio in Napoli
La prima figura da esaminare è quella della amministrazione dei beni dei minori da parte dei genitori esercenti la potestà.
Dall’art. 320 possono dedursi alcuni capisaldi della fattispecie quali : la distinzione tra attività di ordinaria e straordinaria amministrazione, l’esclusione della necessità della autorizzazione per gli atti di ordinaria amm., l’implicita affermazione che la fattispecie della riscossione di capitali non appartiene alla categoria degli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione : lo si deduce dal fatto che il legislatore abbia dovuto sancire l’obbligo dell’autorizzazione per la riscossione dei capitali -comma 4°- mentre non sarebbe stata necessaria una espressa specifica disposizione se il sudetto atto fosse già ricompreso nella categoria di quelli eccedenti l’ordinaria amm. di cui al comma 3°.
A ben vedere anche l’art. 394 pur classificando formalmente la riscossione di capitali tra gli atti eccedenti l’ordinaria amm. (lo si ricava dal termine “altri”), attribuisce alla fattispecie negoziale una peculiare natura differenziandola sul piano del trattamento normativo, con l’esclusione dell’intervento del giudice.
La disposizione del comma 320 assume particolare interesse se messa in correlazione con i successivi art. 324 e ss. Se infatti l’usufrutto legale appartiene in comune ai genitori, è necessario individuare la ragione per cui il legislatore abbia ritenuto necessario un controllo del giudice sull’impiego delle somme di pertinenza del minore, dato che non sarebbe individuabile un interesse diretto del minore stesso al livello di produttività dei capitali.
La riposta va cercata nel 324 comma 2° il quale sancisce la destinazione dei frutti del patrimonio del minore al mantenimento della famiglia e alla istruzione dei figli : prospettiva che già di per sé giustifica l’interesse del minore , se pure non autonomo, e il conseguente intervento del giudice.
Si sottolinea che la destinazione di cui al comma 2 del 324 è contemplata in modo esclusivo e la necessità di un intervento del giudice è inoltre connesso alla eventuale confluenza nel patrimonio del minore dell’eccedenza del reddito rispetto ai bisogni della famiglia.
La tesi alternativa, sostenuta dalla dottrina maggioritaria, ossia l’incameramento della eccedenza da parte dei genitori titolari dell’usufrutto, appare poco convincente, se non altro per l’evidente situazione di conflitto che si determinerebbe nella attività di gestione del patrimonio del minore.
Due conferme normative, seppur indirette, possono ricavarsi dal comma 2 del 326 per cui anche il recupero dei crediti da parte dei terzi sui frutti viene circoscritto all’ambito dei bisogni familiari, né vi è alcun riferimento per cui i frutti oggetto della esecuzione oggetto della esecuzione possano gia appartenere alla eccedenza ed, essendo già acquisiti alla libera disponibilità dei genitori, possano essere senza limiti aggrediti dai terzi ; e nell’art. 328 che contempla il passaggio a nuove nozze del genitore, in cui si parla espressamente di “accantonamento a favore del figlio”.
Altro problema riguarda la determinazione del momento logico-temporale nella quale l’eccedenza del reddito rispetto ai bisogni diviene capitale.
Qualcuno ha sostenuto che il passaggio avverrebbe a termine dell’esercizio finanziario –ossi adell’anno solare – sulla base della considerazione che il periodo tipico per la redazione del bilancio consuntivo è quello annuale.
L’orientamento dottrinale di maggior seguito propone un collegamento tra volontà e modificazione della natura di detti frutti, ritenendo necessario un preciso momento volitivo, seppur anche tacito, per la produzione dell’effetto ma omettendo di precisare come tale volontà debba o possa manifestarsi. Probabilmente la manifestazione volitiva cercata va desunta proprio nella programmazione di un investimento di tipo durevole, intrinsecamente incompatibile con l’utilizzazione degli stessi mezzi al fine del soddisfacimento dei bisogni concreti, per essere stati destinati dai genitori all’acquisizione di cespiti di natura patrimoniale, i redditi hanno già acquisito automaticamente la qualità di patrimonio . E’ difficile sostenere l’esistenza di altre forme di accertamento di detta volontà.
La riscossione di capitali deve pertanto essere autorizzata, soprattutto perché il giudice possa impartire disposizioni circa il loro impiego : mentre infatti l’interesse del minore all’impiego utile del proprio capitale giustifica l’intervento del giudice , nessun controllo giudiziario è invece necessario per le operazioni di riscossione e di utilizzazione dei frutti da parte del genitore ; quando però l’eccedenza dei frutti venga destinata all’acquisto di beni durevoli, il relativo impiego necessita di autorizzazione , comportando l’acquisizione in un momento logicamente antecedente all’atto, della natura di capitale delle somme da investire.
La seconda ipotesi di amministrazione di patrimoni altri è quella affidata al tutore, regolata dagli art. 351 e 371 e ss. . Rispetto al minore in potestate, la figura della tutela presenta sostanziali differenze , imputabili da un lato alla mancanza degli stretti vincoli parentali tra amministratore e amministrato, e dall’altro dall’assenza della figura dell’usufrutto legale.
Ne consegue che il tutore è tenuto al rispetto della spesa annua occorrente per il mantenimento e l’istruzione del minore e l’amm. del patrimonio , è tenuto ad impiegare il reddito eccedente cosi come previsto dallo stesso art. 372, per l’investimento dei capitali è tenuto a richiedere l’autorizzazione del giudice ( in base a quanto osservato circa l’amministrazione dei genitori, deve qualificarsi investimento di capitali anche l’impiego del reddito eccedente). Per la riscossione di capitali , indipendentemente dal loro impiego, il tutore deve essere preventivamente autorizzato dal giudice tutelare (374 n.2): la ragione di tale norma è da ricercare nell’esigenza di controllo sulla amministrazione del tutore e sulla stessa composizione del patrimonio.
Circa le differenze salienti tra tutela e potestà parentale , che si riflettono inevitabilmente sulla relativa disciplina giacchè condizioni e presupposti concettuali sono diversi, si sottolinea:
- il vinculum sanguinis , che non sussiste per l’interdetto ;
- la durata temporale , necessaria per il minore solo finchè rimane “in potestate” ;
- mentre la potestà dei genitori ha una origine naturale ( con la nascita, e verosimilmente senza patrimonio) , quella del tutore è dativa , con la necessità di un apposito procedimento al riguardo ( per la tutela il patrimonio può esservi e di solito c’è) ;
- mentre i genitori hanno l’usufrutto legale , con obbligo di destinare i frutti al bisogno della famiglia, il tutore ha invece obbligo di investire il capitale, previa autorizzazione, secondo le prescrizioni dell’art. 372 ;
- la diversa funzione del giudice tutelare, che nella tutela ha potere direttivo ; nella tutela inoltre è prevista l’autorizzazione del tribunale per gli atti di cui all’art. 375 (atti di disposizione) ;
- la potestà è congiunta nella potestà e singola nella tutela : diversità dei rapporti tra i due genitori e tra tutore e protutore dall’altro ;
- la disciplina del conflitto di interessi .